L’Altipiano dei Sette Comuni e la Grande Guerra hanno un rapporto bizzarro. Se gli italiani pensano al 1915-18 immaginano il Carso, Il Monte Grappa e il fiume Piave sacro alla patria. Eppure, l’Altopiano vanta il (discutibile) privilegio di essere stato l’unico importante teatro di operazioni sul fronte italiano dove si combatté ogni singolo giorno della guerra. E si trattava di un territorio abitato da una comunità di 40mila anime, che avrebbe sofferto come poche altre le conseguenze delle alterne fortune del conflitto. Così, non deve stupire se il ricordo della guerra spunta quasi da ogni angolo di quello che oggi è un tranquillo paradiso per il turismo alpino. Dal Forte Verena, appollaiato a duemila metri sulla Val d’Assa, fu sparato il colpo di cannone che alle 4 del 24 maggio 1915 annunciò l’inizio della Grande Guerra. Avrebbe dovuto essere l’avvio di una rapida campagna vittoriosa, ma il forte venne sbriciolato pochi giorni dopo dai super mortai Skoda austriaci, che sparavano proiettili da 400 chili contro cui le sue pareti di cemento (costruite al risparmio) non potevano nulla. I suoi resti, deturpati dagli impianti sciistici che arrivano fino alla vetta del Monte, sembrano sempre dominare gli altipiani e presentano ancora quell’immagine di potenza e invulnerabilità spazzata via in poche ore, insieme ad un quindicennio di dottrina militare e di investimenti pubblici: un buon esempio di quanto siano pericolosi i professionisti delle armi con le loro granitiche certezze al tempo della guerra moderna. Non si tratta certo dell’unica traccia del conflitto ben visibile su queste montagne. Quattro anni di guerra hanno plasmato il paesaggio, hanno fatto nascere strade e gallerie che hanno forato le montagne. E hanno spianato i centri abitati. Asiago devastata nel corso della Strafexpedition («Asiago è in fiamme – Asiago fu» ricorda Frescura il 18-19 maggio 1916) verrà ricostruita integralmente nel dopoguerra: scartato il progetto di erigere una città completamente nuova più a nord, sotto le pendici del monte Katz (tra le attuali contrade di Rodeghieri e Costa), si dovette aspettare il 1920 perché, sgomberate le macerie e i residuati bellici ancora pericolosi, i cantieri potessero iniziare. I lavori non sarebbero terminati che l’anno seguente. Testimonianza vivente delle capacità distruttive della guerra moderna. E dell’eterna lentezza della ricostruzione, quando è affidata alle commesse pubbliche.