« Sul finire dell’estate di quell’anno eravamo in una casa in un villaggio che di là dal fiume e della pianura guardava le montagne. Nel letto del fiume c’erano sassi e ciottoli, asciutti e bianchi sotto il sole, e l’acqua era limpida e guizzante e azzurra nei canali». Era davvero idilliaca la Bassano raccontata da Ernst Hemingway in Addio alle armi. Ma l’esperienza reale della cittadina tra 1915 e 1918 fu molto meno affascinante. Bassano era all’epoca un borgo di poco più di 18mila abitanti, in larga parte concentrati nel centro storico medievale e nell’antico quartiere di Angarano, ai piedi dei colli e a ovest del fiume Brenta. Da poco aveva cominciato a scrollarsi di dosso il ruolo di sonnacchioso capoluogo di distretto rurale per avviarsi verso un rapido sviluppo, non così importante da farne uno dei poli della nuova manifattura regionale ma abbastanza da trasformarlo in un centro in vivace espansione. Posta allo sbocco del canale del Brenta, ai piedi dell’Altopiano e a meno di una ventina di chilometri dal confine con l’Impero d’Austria, la città controllava le principali vie di comunicazione tra la pianura veneta e le regioni di lingua tedesca. Una posizione felice in tempo di pace, un incubo in caso di guerra. Nei momenti più critici della Strafexpedition nel 1916 e dopo Caporetto, Bassano si ritrovò ad essere la base avanzata dell’esercito italiano. Un rango che comportava l’onore non molto ambito di essere un bersaglio privilegiato delle artiglierie e dell’aviazione imperiale. Erano passati solo quattro mesi dall’inizio delle ostilità quando la prima bomba d’aereo colpì lo storico Ponte Vecchio. Con la sua maestosa struttura coperta in legno, era il cuore della città e la sua icona più famosa, un obiettivo simbolico oltre che un bersaglio dal profilo inconfondibile. Fu l’inizio di uno stillicidio senza fine: uno su dieci dei bassanesi morti per la guerra fu un civile colpito da una bomba. E quando, subito dopo Caporetto, il fronte collassò, poco ci mancò che Bassano venisse trasformata in un fortino dove difendersi fino all’ultimo uomo, casomai le ultime difese sull’Altopiano e sul Grappa fossero state superate. Alla fine gli austriaci vennero fermati (ma erano arrivati a meno di quindici chilometri), anche se per prudenza i militari minarono il Ponte Nuovo che era appena stato ultimato. All’inizio del 1918, mentre poco meno di diecimila bassanesi si aggiungevano all’esercito di profughi veneti in fuga verso sud, e alcune centinaia di giovanissimi della classe 1899 raggiungevano gli adulti già mobilitati per difendere le proprie case, Bassano era diventata un deserto, in cui sopravvivevano poche centinaia di abitanti, e occupata da un esercito di 40mila fanti in grigioverde pronti a difenderla a tutti i costi. Non stupisce che la memoria del conflitto si ritrovi ovunque in città, dal Tempio Ossario, che avrebbe dovuto essere il nuovo duomo e fu alla fine trasformato in un sepolcreto, al Ponte Nuovo, terminato in fretta e furia grazie ai bisogni impellenti dell’esercito, battezzato ufficialmente “Ponte della Vittoria” e che, con una scelta simbolicamente alquanto bizzarra, mette in comunicazione Viale Armando Diaz con Piazzale Luigi Cadorna.