“I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”. Per generazioni e generazioni di italiani formatisi nel vero e proprio culto della Grande Guerra questa frase, destinata a far parte della memoria collettiva, avrebbe compendiato l’intera vicenda bellica. Si tratta del periodo finale del Bollettino n.1268, pubblicato il 4 novembre 1918 dopo la firma dell’Armistizio di Villa Giusti, passato alla storia come il “Bollettino della Vittoria”. Il testo integrale è riprodotto in pietra sulla facciata della Villa e in migliaia di municipi italiani. La sua stesura ci riporta in una località del padovano, sul confine tra i comuni di Abano e Teolo: più precisamente a Villa Scalfo, oggi Monzino, denominata anche “Villa Bembiana”, in quanto residenza dell’illustre letterato Pietro Bembo.

 

Il complesso realizzato agli inizi del ‘600 è composto da un corpo padronale e dagli annessi rustici: si erge su un terrazzamento raggiungibile attraverso una scalinata. Il parco romantico è abbellito da statue, da una grande vasca artificiale, la peschiera, e presenta una ricca vegetazione soprattutto a macchia mediterranea.
Nel febbraio del 1918, con il trasferimento a Abano del Comando supremo, vi si era insediato l’Ufficio Stampa e Propaganda, diretto dal Generale Domenico Siciliani. All’Ufficio spettavano competenze importanti e delicate, tra cui la redazione quotidiana del Bollettino di guerra e la predisposizione di azioni di propaganda nei confronti sia delle truppe italiane, sia di quelle austriache.
E’ in questa Villa che Siciliani scrisse la prima versione del Bollettino, che venne corretto e integrato da Diaz che vi aggiunse anche il famoso ultimo periodo, quello destinato a passare alla storia. La stesura del testo fu lunga e faticosa, a partire, come racconta Montanelli, dall’individuazione da parte di Diaz dello stesso Comune di Vittorio sulle mappe militari. La leggenda vuole che dopo aver scrutato le mappe, coadiuvato da una grossa lente, si fosse rivolto in napoletano a Ferruccio Parri, dicendogli: “Ma ‘sto Vittorio Veneto addò cazz sta?”. Frase, certo, poco aulica e non destinata a passare alla storia.
La stesura del testo fu un atto di alta diplomazia. Si dovevano conciliare infatti diverse esigenze, sia interne all’Esercito italiano, sia internazionali. Bisognava citare il ruolo svolto dai vari corpi d’Armata e quindi dai rispettivi generali. Bisognava fare riferimento alla presenza delle truppe alleate, inglesi, francesi, americane e cecoslovacche, evitando tuttavia di attribuire loro un ruolo troppo significativo. Questo spiega il criterio, molto ragionieristico, con cui venne pesato l’apporto in termini numerici sia delle preponderanti divisioni italiane sia di quelle alleate.
Il Bollettino, firmato da Diaz venne riprodotto in migliaia di copie, scolpito nella pietra di molti edifici e altari della Patria dove si celebrava il rito della Vittoria. L’espressione “firmato Diaz” divenne un elemento costante che contrassegnava lo spazio pubblico e le sue liturgie. Negli anni successivi, a suggellare l’impatto emotivo che il Bollettino produsse sulle truppe e sulla popolazione, molti bambini vennero chiamati “Firmato”, nella convinzione popolare si trattasse del nome del generale.