Il Monte Pertica non è certo imponente. A malapena si scorge, alto 1500 metri a nord ovest di cima Grappa, e si raggiunge facilmente, con pochi minuti di auto dal Rifugio Bassano, e una breve camminata. Un tragitto che non riserva alcuna emozione particolare, se non una vista straordinaria che nei giorni più limpidi spazia dal versante orientale dell’Altopiano di Asiago, appena al di là della vallata del Brenta, ai Lagorai e alle Vette Feltrine. Eppure, questo rilievo dall’apparenza così anonima fu uno dei campi di battaglia più sanguinosi della prima guerra mondiale. Alla fine di novembre del 1917, subito dopo Caporetto, le truppe austriache lo occuparono improvvisamente. Come Monte Tomba, a est, o l’Asolone, a sud ovest, il Pertica divenne la chiave per decidere chi avrebbe vinto la battaglia per il Grappa: se gli austriaci fossero riusciti a occupare tutto il massiccio, sarebbero sbucati alle spalle di ciò che restava delle armate italiane battute sull’Isonzo e che stavano ora tenendo disperatamente la linea del Piave. Fu così che migliaia di uomini morirono per il possesso di quelle poche decine di metri quadrati. Gli alpini del Monte Rosa e gli Schützen del 3° reggimento di Graz persero e ripresero più volte il monte nel corso di una serie di mischie furibonde e spesso all’arma bianca: alla fine, il monte restò in mano austriaca, anche se metà degli uomini che l’avevano conquistato il primo giorno di combattimenti giaceva ora morto tutto intorno o (con un po’ di fortuna) ferito in qualche ospedale da campo. La pessima nomea del Pertica non si sarebbe smentita nei mesi seguenti: divenne ben presto un settore famigerato tra i combattenti di tutti e due gli eserciti, impegnati in una logorante battaglia di posizione tra postazioni spesso distanti solo poche decine di metri, il punto più avanzato di quella lunga trincea ininterrotta che correva attraverso tutto l’Altopiano dei Sette Comuni, scavalcava il canale del Brenta e arrivava al Grappa su cui si stava decidendo molto dei destini della guerra. Infine, quando la guerra fu vinta e la mitografia ufficiale cominciò a darsi da fare per celebrare gli eroi e i luoghi epici della grande prova nazionale, il monte divenne «sacro»: «Monte Grappa tu sei la mia patria», come cantava la canzone del tronfio generale De Bono.
Qui la guerra sembra aver costruito più di quanto abbia distrutto. La Strada Cadorna tra Romano d’Ezzelino e Cima Grappa ne è un buon esempio. Fu portata a termine nei primi giorni di ottobre del 1917, e nonostante i tempi rapidi (eccezionali, se si pensa che si dovette solcare il monte con una serie di tornanti e perforare pareti di roccia viva) venne realizzata così bene da costituire ancora oggi la principale via di accesso dalla pianura. Non passeranno nemmeno poche settimane dalla sua inaugurazione che sulla cima del Grappa (o, meglio, sotto la cima) verranno iniziati i cantieri di quel labirinto sotterraneo noto come «Galleria Vittorio Emanuele». Scavato in tutta fretta nell’autunno 1917 quando sembrava che l’esercito italiano fosse davvero un naufrago in procinto di annegare, il sistema fortificato del Grappa, con i suoi cinque chilometri interamente scavati dentro la montagna, era in grado di ospitare fino a 15mila uomini ed era protetto da decine di mitragliatrici e da un centinaio di pezzi di artiglieria. Un’intricata fortezza invisibile e temibile. E ancora oggi, per chi si avventuri nei suoi corridoi, un’esperienza fondamentale per comprendere la realtà di una guerra per la cui vittoria l’Italia deve ringraziare molto di più funzionari, tecnici e ingegneri che poeti, politici e generali.
Ma il segno della memoria per eccellenza è il Sacrario del Grappa, il cui mastodontico profilo, visibile a chilometri di distanza, ricopre (e per certi versi completa) l’immagine di un monte assorbito completamente dal suo ruolo simbolico. Quando venne inaugurato, il 22 settembre 1935, era un inno alla grandezza eroica della nuova Italia fascista, uscita più grande e più forte dalla lunga prova della guerra. I suoi cinque colossali gradoni a cerchi concentrici, in cui erano stati collocati i loculi con i resti dei caduti, avvolgevano la cima del monte ricordando nemmeno troppo vagamente una fortezza, e la Via Eroica, che conduce al sovrastante “Portale di Roma” correndo tra 14 cippi in pietra ognuno dedicato ad una delle battaglie combattute nei dintorni, era un itinerario mentale e simbolico che doveva trasmettere al moderno pellegrino l’orgoglio per le grandi vittorie. Seguendo il cammino obbligato dal basso verso l’alto, i visitatori venivano (e vengono) coinvolti in un’ideale ascensione dalle tombe (primi quattro livelli) al cielo aperto (ultimo livello e cima della montagna), dalla morte alla gloria. E per non lasciare adito a dubbi sul significato bellicoso e trionfale del monumento, il giorno dell’inaugurazione le autorità e la folla giunta dalla pianura vennero accolti da due statue ciclopiche: un fante di guardia, alto oltre tre metri, sovrastato e quasi vegliato da una gigantesca statua (dodici metri) che avrebbe dovuto rappresentare «l’Italia fascista». Le due statue scomparvero subito dopo l’inaugurazione e non vennero mai più ritrovate, un’ottima rappresentazione della disciplina e del furore guerriero degli italiani dell’epoca.