Dopo Caporetto gli alleati dell’Italia, poco fiduciosi rispetto alla possibilità che l’Esercito italiano fosse in grado di arrestare sul Piave le truppe nemiche, acconsentirono alle richieste del Re e del Governo di sostenere lo sforzo difensivo con l’invio di alcune divisioni francesi e inglesi: chiesero però e ottennero che Cadorna, il Generalissimo, fosse sostituito al Comando Supremo dell’Esercito. Non sarebbe stata un’operazione indolore: Cadorna aveva accentrato su di sé un potere enorme e quando, il 7 novembre, gli venne prospettata l’ipotesi di una sua sostituzione impose che fosse il Re a comunicarglielo. Così avvenne il giorno dopo quando Vittorio Emanuele III, di buon mattino, lo incontrò per alcune ore. Verso mezzogiorno un funzionario ministeriale consegnò a Cadorna la lettera ufficiale di destituzione e si diresse poi a Meolo, nel veneziano, per formalizzare a Diaz l’incarico con efficacia immediata. Alle 21 del 8 novembre, dopo aver cenato in un’osteria in Città, Diaz si recò da Cadorna. L’incontro tra i due, lo raccontano i testimoni, fu molto teso: alle ore 22,30, scuro in volto Cadorna lasciava per sempre la sede del Comando Supremo. Si trattò di un momento di snodo particolarmente importante rispetto alle gestione del conflitto: ne era comunque già cambiata la natura, la Guerra offensiva, combattuta sulle trincee del Carso, si trasmutava nell’epopea del Piave e del Grappa, il “Monte Sacro alla Patria”. La Guerra diventava difensiva e nelle comunicazioni militari e nei Bollettini avrebbe incominciato a riecheggiare quello che poi sarebbe assunto a mito: “la difesa del sacro suolo della Patria”.
Lo scenario di tali episodi sarebbe stato un vecchio edificio padovano: Palazzo Boldù-Dolfin, oggi Teresianum. Si tratta di un austero Palazzo costruito nel 1568 su commessa della nobile famiglia veneziana dei Priuli. Nel 1917 il Palazzo era di proprietà di Dolores Branca e del marito, Paolo Dolfin Boldù, che, a piano terra, vi aveva realizzato un museo di storia naturale e “caccia grossa”, dove esponeva imbalsamati i suoi trofei. Pochi giorni dopo Caporetto, il 27 novembre del 1917, vi si erano stanziati alcuni Uffici del Comando Supremo: il 5 novembre arrivò anche Cadorna.

Il passaggio di consegne tra i due Generali fu carico di implicazioni: dopo Caporetto aleggiava nel Paese l’incubo di Lissa, di Custoza, le cocenti sconfitte che l’esercito italiano aveva riportato nel corso della III Guerra d’indipendenza del 1866, quella con cui il Veneto, e Padova, sarebbero entrate a far parte del Regno d’Italia. L’esito del conflitto sembrava confermare l’assunto che gli italiani non sapevano combattere: l’esito vittorioso della guerra di Libia contro l’impero turco non era certo stato sufficiente a fugare quell’incubo. Un filo rosso legava poi il Palazzo e la Via su cui sorgeva all’epopea risorgimentale: la Via era infatti intitolata a Vittorio Emanuele II. Nel 1866 il nonno del Re-Soldato era entrato da trionfatore a Padova proprio dalla vicina Porta Santa Croce e aveva attraversato a cavallo la strada su cui sorgeva il Palazzo. Per uno strano destino proprio all’ufficio del telegrafo di Padova, nell’attuale Piazza Cavour, era pervenuto nel luglio del 1866 la famosa risposta di Garibaldi al Re. Con i suoi Volontari Garibaldi, sconfitte le truppe austriache, si apprestava infatti a marciare su Trento. Sarebbe stato fermato, come noto, da un dispaccio del Sovrano, cui sarebbe seguita la risposta destinata a entrare nella storia e nella memoria collettiva degli italiani: “Obbedisco”.